A Lales, perchè c'è.
e ha capito Dorcas come nessuno mai.
Marty*, perchè è stata la mosquita perfetta.
A Chocol@t, perchè ha sopportato la mia iniziativa stramba.
E a tutte quelle con cui ho parlato in questi giorni. C'è un poco di voi, in questa ff.
Oddeoh, che melensa. No, Lales,
mi stai deviando. Mi rovini l'acidità e l'ironia, Boss. *-*
Kennst du das?
Man lebt einen Traum
Und irgendwann wacht man auf
Einfach so…
{Niemand Hört Dich – Pan!k}Salgo le scale che portano alla terrazza paronamica a due a due. Non vedo neppure che ho ormai finito i gradini, tanto sono furiosa. Infatti spicco un salto che mi fà capitombolare per terra con un gemito strozzato.
Di rabbia. Sento un peso di tonnellati pesarmi nella bocca dello stomaco, e l’unica cosa che vorrei sarebbe poter picchiare qualcuno. Ma è troppo tardi. Le lacrime che erano intrappolate dalle ciglia, per il contraccolpo cadono. Mi tiro sù di botto, del tutto incurante che mi sono sbucciata il ginocchio e che le mani mi bruciano da impazzire. Le strofino ossessivamente, mentre con passi pesanti mi avvicino al parapetto.
Non singhiozzerò, io. Non io, non io che mi ero ripromessa non farlo mai più.
È una cosa che non sopporto.
-io non sono debole. Io non cedo ...MAI!
Mi aggrappo alla ringhiera del parapetto, stringendo forte fino a sentire il metallo compenetrarmi i palmi, farmi male, un dolore che mi riporta in vita. Voglio morire, ma cerco di tenermi viva con le unghie e con i denti.
Non provarci neppure. Non cedo, o lo farò troppo velocemente perchè tu mi possa vedere.Abbasso la voce, e la mia gola brucia, dopo aver gridato. Ma non brucia tanto come il ricordo. Perchè se così fosse griderei fino a non poter più parlare, fino a non sentire. Fino a non poter staccare più la spina. Le lacrime scendono, portandosi via la matita, il mascara, il dolore. Cadono come macchie di colore sulla ringhiera di metallo un pò scrostata del terrazzo.
Stringo forte i denti. E qualcosa un poco più a nord dei polmoni raddoppia i suoi dolori. Mi sento morire, morire...
O forse sono già morta.
Forse sono morta tanto tempo fà.
{Niemand hört dich, niemand sieht dich!} -prendi quella medicina, Dorcas.
-non voglio, Manager.
Un tapettino di appena dodici anni, in deragliamento contro l’adolescenza e un visibilissimo caschetto di capelli neri e ricci, aveva appena pestato i piedi.
Le sue labbra rosse prive di qualsivoglia piercing erano strette in un’espressione a metà tra lo stizzito e l’annoiato.
-Dorcas, smettila di fare i capricci. Il medico ha detto che hai bisogno di prendere questa aspirina. Hai la febbre, e non ti ci vogliamo alla première del gruppo con la febbre.
Un paio di irridenti occhi blu lo squadrarono.
-chi è che mi ha consigliato di provare otto ore al giorno?-chi, chi, CHI?
La tecnica del gridare forse funziona. Mi sento gemere. Di dolore. Sono io questa? Ero io?
Singhiozzo. Finalmente lo faccio, e anche se non allevia, libera. Non so neppure da cosa. Ma mi sento ogni volta più distrutta. Così non potrò fare danni a nessuno, neppure a me stessa. Mi appoggio alla ringhiera di spalle, lasciandomi scivolare lentamente per terra, incurante di come il tetto scotti, sotto i raggi del sole ormai morente. Agosto a Berlino non è uno scherzo.
{Liegt sie im Bett und weint}-non è uno scherzo, hai già in tasca la metà dei profitti della band!
-lo so che è stata fondata solo perchè c’ero io a suonare, ma...
-niente ma. Te li meriti.
Decido di starmi zitta. Non gli dirò mai che oggi Klein ha dato della stronza a mia madre, per essersi messa in tasca i miei diritti. In fondo lui solo è il cantante per la sua bella faccia.Cantante per la sua bella faccia. A lui non chiedevano di provare, no.
Lui non aveva dei genitori assenti e una zia con una voglia matta di essere ricca. Lui non aveva...
-problemi, problemi.
Ripeto ossessivamente l’eco dei miei pensieri, perchè adesso in me non c’è spazio in nient’altro. Mi sento inutile. Inutile, vuota, sola. Ho l’eco di immenso dolore in ogni singolo nervo del mio corpo. E solo voglio gridare. E ansimare. Non voglio ricordare, voglio farmi a pezzi per non sentire gli strascichi di ricordi che hanno provocato i miei sbagli.
Mi prendo la testa tra le braccia, cercando di fuggire.
{ Die Welt bleibt stehn und ihr wird kalt,
Sie hat Angst zu versagen [...] }-Dorcas, non mi starai montando questa sceneggiata solo perchè oggi hai provato
Nove ore! A tredici anni si può anche fare di più.
Osservo l’espressione seria del mio manager, mentre scuoto la testa. Da brava bambina quale sono gli mostro il polso sinistro, gonfio. E che, soprattutto, mi duole un casino.
-uhm... se fai da brava, potremmo provare a portarti da un medico. Ma devi provare ancora un poco, dai. Facciamo fino alle dieci.
-ma non può! Boss, non vedi in che condizioni è?!
Mi giro di scatto verso una figura che si affaccia alla porta dello studio. Alta, affatto carina. Troppo spigolosa e simile a un sacco di ossa, per poter sembrare qualcosa di più di una goffa ragazzina dai capelli neri e crespi.
-Christa, nessuno ti ha detto di mollare quel basso! Torna a suonare, adesso! Dorcas, anche tu.
-ma...
Faccio per rispondere io.
-tu niente. O devo riferire a tua zia?E vaffanculo a chi si approfitta di te, chi ti tende trappole psicologiche. Vaffanculo zia, vaffanculo famiglia cara. Perchè non c’eravate, non mi avete fermato. Ero piccola e cretina, per me il successo era la chiave per farmi amare da qualcuno che non foste voi. Mia zia, delle fan.
Qualcuno che si ricordasse chi fossi io, e che non mi confrontasse con dei fratelli morti. Vaffanculo, vaffanculo.
Perchè c’ero e non mi vedevate, perchè gridavo e non mi sentivate. Battevo forte sopra una batteria, ma piuttosto che aiutarmi, mi davate ancora più ragioni per suonarla.
Era sfogarmi su una batteria per non piangere, era amare dei piatti perchè quel suono così metallico era così simile i miei sogni che si schiantavano contro la vostra indifferenza, da farmi piangere. Era pestare forte su una grancassa perchè il suo risuonare sembrava avere più effetto su di voi che le mie continue urla. Era picchiare dei tamburi perchè voi non c’eravate, e passavate indifferenti al mio fianco.
Era elemosinare un poco d’affetto attraverso l’amore che tutti voi, stronzi adulti che mi circondavate, nutrivate per il mio talento e non per me. Ho passato dodici anni della mia vita dietro ad una batteria, ma nessuno lo sapeva. Nessuno doveva saperlo, perchè ero la stella di lancio della Universal. Ancora prima dei Tokio Hotel, ancora prima dei quattro di Magdeburg, c’era il gruppo costruito in sala di registrazione a partire da una anonima batterista di Düsseldorf.
Che con la batteria ci faceva cose che voi comuni mortali non avreste neppure potuto immaginare. Mi passo le mani sulla faccia, strofinandomela forte. Non importa che siano macchiate di sangue, che brucino. L’importante è spandere queste lacrime che ho sul viso in maniera uniforme, che si trasformino patina opaca, che mi facciano da scudo e cortina dietro cui nascondere quel che resta di me, per l’ennesima volta.
Ma provo dolore, perchè sono lacrime ci saranno sempre, come i cocci taglienti di un sogno infranto.
Lacrime che ci saranno sempre, mi difenderanno e mi faranno male, una maschera che mi aiuterà a conservare la lucidità.
Come dopo la diagnosi, come dopo l’operazione, come dopo la fallita riabilitazione.
{Im Eissturm verklingt dein Hilfeschrei!
Niemand hört dich
Niemand sieht dich
Im Eissturm kämpfst du ganz allein
Jeder friert hier
Jeder verliert hier}-avete fatto male a portarla così tardi. Questo è proprio un caso da tunnel carpale.
-che cos’è?
Chiesi io, dal lettino sul quale ero sdraiata. Il dottore non sorrise e i suoi baffi alla Bismarck mi facevano paura. Non mi rispose, ovviamente. Ma io avevo paura. A dodici anni e con un polso sinistro gonfio come una salsiccia putrida, avevo paura.
-è proprio così grave?
Il mio manager girava in circolo al centro della sala.
-dipende. Con un’operazione tempestiva e un periodo di riabilitazione...
-che cos’è un tunnel carpale?
-quanto intende, per un periodo di riabilitazione?
-CHE CAZZO Ê UN TUNNEL CARPALE?
Ero seduta sul lettino, adesso. E ansimavo. Perchè ero ignorata ancora una volta, ma se ci andava di mezzo me e la mia batteria, già non era più un fatto della Universal.
Finalmente il dottore mi degnò di uno sguardo. Indifferente, ma di quelli ero abituata a riceverne.
-La Sindrome del Tunnel Carpale è dovuta alla compressione del nervo mediano al polso nel suo passaggio attraverso il tunnel carpale. Il tunnel è un canale nel polso formato dalle ossa carpali sulle quali è teso il legamento traverso del carpo, un nastro fibroso che costituisce il tetto del tunnel stesso. La patogenesi occupazionale sembra essere la causa più frequente per lo sviluppo. E' stata dimostrata un' associazione con i lavori ripetitivi, sia in presenza che in assenza di applicazione di forza elevata. Nelle fasi iniziali della patologia la Sindrome si manifesta con formicolii, sensazione di intorpidimento o gonfiore alla mano, prevalenti alle prime tre dita della mano e in parte al quarto dito soprattutto al mattino e/o durante la notte; successivamente compare dolore irradiatesi anche all'avambraccio, sintomi definiti "irritativi". Se la patologia si aggrava compaiono perdita di sensibilità alle dita, perdita di forza della mano, atrofia.- si gira verso il manager.
-si può curare con un’intervento tempestivo e tre mesi di terapia.
Tre mesi?E non era che l’inizio. Cosa puoi fare, quando di mettono spalle al muro e nessuno che abbia in mano il potere ti può aiutare?
{Sie redet nicht mehr,
weil niemand sie versteht
Ihre Hoffnung stirbt, weil der Winter nicht mehr geht}-no, Dorcas, non lo fare.
-Christa, tu non capisci! Zia ha detto che mi viene a vedere, alle prossime prove!
-ma tre mesi non sono passati! Non puoi, il Doc lo ha proibito!
-me ne frego. È passato un mese e mi sento perfetta. A poi me lo ha chiesto zia.
-quella stronza che i mette in tasca più della metà dei tuoi profitti? Quella che ti fa un pat-pat solo perchè suoni come una pazza o ti dice un “non ti voglio più bene” perchè ti sei fottuta un polso? Eh, eh?
Mi trema il labbro.
-non dire cazzate, tu sei solo invidiosa! Zitta!
-ti prego, io...
-ZITTA!-Dorcas, caVa?
Spalanco gli occhi spaventata, perchè la voce infantile della Christa dei miei ricordi si è sovrapposta per un momento a quella adulta della Christa presente, che, accovacciata di fronte a me, mi porge una felpa.
-che ne dici di coprirti, cara? Fa un poco di freddo.
La vedo osservarmi inclinando la testa, sorridendomi placida come solo lo è con me. Non mi muovo, non parlo. La osservo attraverso uno spesso strato di lacrime che non ne vogliono sapere di cadere. Sospira triste, mentre mi poggia la felpa sulle spalle. Sbatto gli occhi, e altre lacrime non possono fare altro che cadere, in una forsennata corsa con il tempo per misurare chi arriva prima.
Non preoccupatevi, c’è spazio per tutte.
Poggio la testa sulle ginocchia, mentre avverto la felpa riscaldarmi un pò. Sempre a labbra chiuse, la sento trafficare un poco. Poi un bruciore forte al ginocchio. Sollevo la testa di scatto, spaventata.
-ehi, tVamPfillaH.
Cosa? Ha una scatoletta di cerotti che le pende dall’angolo del labbra e, a tradimento, la bastarda, mi ha appena disinfettato la ferita al ginocchio di poco fa. Sembra quasi vedere il mio sopracciglio inarcato, perchè sputa la scatola per terra e si ripete, mentre mi sistema il cerotto con gesti calmi e dolci.
-tranquilla, piccola.
Allontana anche l’acool da se. Poi mi si avvicina un pò e apre le braccia.
La guardo dubbiosa, tirando su col naso. Sono patetica. Mi sento patetica, come una bambina stupida.
-vuoi distruggere la mia reputazione da vera dura?
La vedo sbuffare, occhi al cielo. Ma non accenna a chiudere le braccia. Sospiro.
Poi l’abbraccio anch’io di rimando, affogando nel suo fisico così femminile, formoso, solido e stabile. Le ho sempre detto che avrebbe potuto fare la scaricatrice di porto o la ballerina di can-can, con quel fisico tutto curve che si ritrovava. E lei mi ha sempre risposto che, con la fortuna che si ritrovava, sarebbe stata moglie del dio denaro. Perchè quando una possiede una bellezza commerciale e atipica come la sua, tutti ti vogliono per ciò che indossi.
Sospiro ancora, mentre la sento stringermi più forte. La felpa scivola via, e il suo profumo di pulito mi avvolge, come un gas narcotizzante. Mi lascio andare mollemente contro di lei, trovando un minimo di pace. Il ricordo di poco fa non smette di bruciare, ma è tutto più facile quando c’è qualcuno di cui ti fidi al tuo fianco.
E con Christa è come se mi sentssi tornare a casa. Come se ce l’avessi, una vera casa. Una casa che non sia un tourbus con una crew di un’ottantina di persone e quattro musicisti viziati e pazzi furiosi.
E non dimentichiamoci che del quarto sono innamorata, e ma va...
Non piango più, ma ho bisogno di ricordare. Per esorcizzare tutto quello che è passato. Ma che continua a vivermi dentro.
-ti ricordi dopo
quelle prove, Christa?
La sento sospirare nei miei capelli. Lo prendo per un si.
-avevamo appena litigato, eppure tu mi avevi inizato a consolare lo stesso. Il polso mi pulsava in una maniera assurda, e non lo sentivo quasi più. Mi doleva come se me lo stessero tranciando, e quello che era peggio, è che mia zia non era neppure venuta. E il manager mi guardava scuotendo il capo.
-e il giorno dopo...
-era finita.
Mi avevano spezzato le ali. Contratto concluso, causa all’universal da parte di mia zia.
Io operata d’urgenza, mandata a riabilitarmi a Khöln. E se non avessi potuto più suonare, sarei morta. Perchè non me ne fregava niente del resto, se non avevo una batteria sua cui picchiare forte. Non mi potevo più sfogare, il mio polso non mi rispondeva. Non c’era.
Operazione di merda, fatta ancora peggio.
E riabilitata malissimo.
{Dieci anni prima, München.}{Niemand hört dich
Niemand sieht dich!
Jeder friert hier
Jeder verliert hier!} Mi sentivo soffocare.
Letteralmente, mi mancava l’aria.
Ero sdriata su un lettino duro, e una maschera scomoda e pesante mi oppimeva naso e bocca.
Ricordo perfettamente quella sensazione d’angoscia che mi stava lentamente macerando il cuore, rendendolo ogni giorno più pesante.
Quelle luci così forti, quei neon tremendamente freddi, privi di vita.
Lo ricordo come se fosse ieri. E quel che è peggio, è che ogni ieri è il rivivere di quell’agonia.
Quell’attesa spasmodica, assolutamente al limite tra crisi isterica e crisi di rabbia che mi faceva scatare come una molla al minimo tocco.
Assottigliai le labbra ancora di più di quanto non lo fossero già, come una linea rosata nell’immensa pallidezza del mio viso. Respirai forte dal naso, socchiudendo gli occhi, tremante.
Merda, tremavo.
E avrei voluto potermi fare coraggio, avrei voluto potermi strappare tutti quei cavi di dosso, avrei voluto Christa vicino e un’abbraccio stretto.
Avrei voluto poter avere in mano il telecomando della mia vita, dare al stop, rewind, e rincominciare daccapo, scansando tutto.
Perchè se non mi avesse ucciso l’operazione, lo avrebbe fatto il panico, da lì a poco.
Su quel lettino d’ospedale, in una sala di operazioni e con un’anestesia in corso.La sonnolenza indotta da quel fiato meccanico dal vago sapore dolciastro mi sapeva ad ipocrita, tanto quanto gli incoraggiamenti fattimi, senza guardarmi negli occhi, dai medici che mi avevano seguito fino a quell’operazione. L’operazione che loro consideravano definitiva.
La definitiva, si: “Dorcas potrà mai tornare a suonare?”
Tra la soglia del sonno e della veglia, resa labile per colpa del sonnifero, mi resi conto che ormai era fatta.
Avevo giocato la mia carta, ma avevo perso.
E da quel momento, non ne sarebbe potuto venire niente di buono.
.-.-.-.-.
{Sie redet nicht mehr,
weil niemand sie versteht
Ihre Hoffnung stirbt, weil der Winter nicht mehr geht}La luce entrava a fiotti dalle enormi vetrate dello studio del prestigioso medico Olufses. Socchiusi gli occhi, cercando di infocare la figura dall’altro lato della prestigiosa scrivania in noce, pensando, nel mentre, a quanto avrei voluto con me un paio di occhiali da sole.
Strizzando gli occhi, cercai di dare un volto a quella che fino ad adesso era stata solo sagoma scure, ma mi scoprii del tutto incapace di farlo: non trovavo umano conservare una placidità assoluta nel dire una notizia del genere.
Non concepisco che la gente possa essere così indifferente, o flemmatica.
Abbassai gli occhi verso le mie all-star consumate, convinta che quel medico da strapazzo non avrebbe più proferito verbo dopo avermi fatto pomposamente accomodare una sedia dallo schienale rigido, del medesimo stile della scrivania.
Incredibile come la punta delle mie scarpe fosse ormai di un uniforme beige per lo sporco.
Sporche.
Come tutto quello che mi circondava.
C’era un qualcosa di profondamente malsano, in tutto questo. lo sentivo suppurare in profondità, conquistando ogni giorno una parte di piu della mia fetta di vita, fino a quel momento immota, per trasformarla in un coktail pericoloso di cinismo e rabbia. Un qualcosa che mi stava procurando una crisi di rigetto incredibile.
Deglutii, socchiusi gli occhi per colpa dei riflessi del fermacarte di metallo sulla scrivania, e mi rassegnai ad aspettare.
Le labbra bruciate dalla mia stessa aciditá, un polso sfibrato per la mia cocciutaggine, tredici anni e solo terra bruciata intorno a me. Mi potevo quasi vedere attraverso l’ottica indifferente di quel chirurgho troppo pagato, troppo famoso e troppo indifferente al sogno infranto di una dei suoi tanti pazienti.
Piccola, magra e smunta, con abiti informi e dai colori scuri che rivelavano che i chili erano stati persi troppo in fretta per poter comprarne di nuovi.
Era una ragazzina fragile, una bambina con ancora le guance umide e gli occhi torbidi di rabbia, le labbra gonfie, rosse per le troppe volte che sono state morse e per un piercing argentato al centro esatto del labbro inferiore, di cui ancora si intravedeva l’alone rossastro tipico delle prime settimane.
Pallida, dal passo incerto di chi non ha ancora preso possessione del suo nuovo corpo e dai corti e ricci capelli, prima neri, adesso dalla ricrescita bianca.
Ma te, a te professionista di successo, tutto questo non fà paura.
Solo, non riesci ad incontrare quello sguardo blu cupo, torbido e vivido come il tramonto delle notti d’inverno, elettrico, crepitante d’ira e lamenti repressi.
E il suo sguardo da bambina è la condanna alla tua inerzia.
Perchè quando l’hai vista arrivare con quel polso, hai capito che era solo questione di tempo.
Perchè, ti sei chiesto, Dio dà il talento a gente che non ha la capacità di svilupparlo?
Aveva polsi deboli.
Assurdamente fragili. Eppure l’avevi sentita, una delle poche volte che eri andato a visitarla direttamente in studio, dato che non aveva neppure tempo per venire in studio.
L’avevi sentita e l’avevi vista, e, per un solo momento della tua vita scandita dall’ovvio tran-tran quotidiano, ti eri sentito vivo nella schiacciante cosapevolezza che lei non avrebbe mai potuto aprire le ali.
Perchè lei, Ed era solo questione di tempo, non avrebbe mai potuto aprire le ali.
-no, non si è ripresa.
Non, negazione. Due piccole lettere che presuppongono la negazione assoluta ed inappellabile di un concetto. Un concetto che per me era l’equivalene del parlare.
Basico.
Sollevai di colpo sguardo, mentre la bocca si inaridiva e smettevo di torturarmi le mani.
-ho potuto fermare il processo degenerativo del polsi, ma, adesso come adesso, non si è potuto permetterle di recuperare un’uso ottimale polso, non si dispone delle tecniche sufficienti.
Il sole, come ad un tacito ordine, era appena stato coperto da una nuovola grigia e carica di pioggia.
Distolsi lo sguardo dalla faccia placida del medico, dal suo taglio di barba curato e calvizie incipiente, occhiali dalla montatura d’oro e camice immacolato.
Sospirai, tremante. Deglutii sonoramente.
Continuando ad ossevare il grigio pavimento di marmo, espirai, lentamente, cercando di non cadere pezzi. Non subito, per lo meno.
Chiudo gli occhi, e cerco di parlare.
Una volta.
E un’altra.
Sento gli occhi bruciarmi e avverto un forte retrosgusto ferroso in bocca. Credo di essermi morsa le labbra a sangue.
{wer bin ich?}-si riguardi.
Cerco di non rispondere. Cerco di non dare di matto, non adesso.
Non subito. Perchè l’isteria che mi sta pulsando nelle vene, questo scattare con vulso della mia mano destra, so che sarebbe capace di fare qualsiasi cosa.
Per esempio, prendere quel cazzo di fermacarte in argento, fedele riproduzione dell’arco di brandeburgo di Berlino, e tirarlo fuori dalla finestra.
Ma se dobbiamo iniziare una vita all’insegna della frustrazione, beh, meglio iniziare ad accumulare punti.
-si riservi.
Apro gli occhi e, miracolosamente, quella lacrima traditrice mi fa il santo favore di non cadere. Distolgo lo sguardo dalle affollate librerie in cupo legno color noce, che ricoprono tre pareti dell’enorme studio, e li centro nel medico.
Che scopro ad evitare il mio sguardo. Afferro con un gesto violento la mia bistrattata sacca adidas ai miei piedi, per poi alzarmi.
Mi avvicino alla suddetta scrivania, isola lignea in un oceano di fredo marmo, l’aria resa pesante dal suo imbarazzo, dal mio furore e da un temporale che ha tutta l’aria di voler iniziare ad imperversare adesso, sui tetti di una cupa München.
Mi appoggio con un gesto a stento controllato sul bordo della scrivania, inclinandomi verso un medico un poco perplesso. La mia smorfia sembra dire tutto, ma MrProfessionalità sembra lo stesso stupito di ritrovarsi una giovane paziente che gli sta ringhiando a venti centrimetri dalla giugulare.
Ed è quindi con un tono aspro, basso e tagliente, che inauguro il mio nuovo motto.
-vada un pò a farsi fottere, signore..-.-.-.-.-.
Era finita.
Con tutto.
Sarei andata in un collegio privato, avrei perso tutti i contatti con Christa, per lunghi anni. Avrei sopravvissuto sei mesi senza la mia batteria, in piena fase di autodistruzione: se le avessi tentate tutte mi avrebbero ucciso per logoramento? O per crisi? Non mi sarei potuta esprimere, non avevo più con che cosa gridare al mondo che ci fossi.
Ero sola. E sola sarei voluta rimanere. .-.-.-.-.-
{Dieci anni fà, Stuttgart. Collegio privato G.}Osservai distratta il mio riflesso indifferente nello specchio sopra il cassettone della mia camera.
Una ragazzina troppo magra e troppo bassa per avere tredici anni e dieci mesi mi ricambiò con una smorfia sofferente, due piercing che sbrilluccicavano al labbro inferiore e una inquietante chioma bianca tagliata in un caschetto disordinato.
Distolsi lo sguardo, posai la spazzola sul ripano.Avevo sempre avuto paura del dolore. Aveo un sacrosanto panico, all’idea di un dolore lancinante in una qualsiasi parte del mio corpo.
Temevo il bisturi, le relazioni serie, temevo tutto.
Ma quella che temevo di più, era me stessa e la mia capacità di alienazione.
Mi ero dimenticata cosa volesse dire avere qualcuno che conoscesse qualcosa di me, all’infuori di uno stupido nome.
Mi ero quasi dimenticata cosa volesse dire l’affannarsi per ottenere qualcosa.
Non ricordavo cosa significasse potersi sfogare con qualcosa che non fossero pugni alle pareti.
Sciovolavo insorabilmente nell’apatia più nera, canticchiando stralci di Requiem di Mozart e procurandomi il necessario per finirla.
Mi ero voluta isolare, e ci ero riuscita maledettamente bene.
Nessuno si era preoccupato.
Perchè tutto era più importante.Mi avvicinai con passo leggero al tavolo della mia stanza, osservando come la luce che entrasse dalla finestra fosse calda e cristallina.
Tutto il contrario del vortice di sentimenti inconfessabili che avevo visto turbinare nel mio sguardo di poco fà.
E facciamola breve.Sospirai, alzando inl mento in una sorta di gesto sprezzante verso tutto quelo che mi circondava.
Ero riuscita a raccattare quel tanto di coraggio che bastava per programmare tutto nei minimi particolari.
Lezioni di anatomia, incursioni nell’ambulatorio della scuola
Con un gesto sicuro afferrai l’anestetizzante locale in spray, comprendo con la mano la dicitura “efficace in tre minuti”.
Lo agitai, come raccomandato dalle istruzioni, per poi poggiarlo un momento sul tavolo di fronte a me. Mi distrassi un momento nell’osservare il grande ciliegio che dal giardino della scuola arrivava fino alla finestra di camera mia, osservando come fosse disgustoso il fatto che facesse una splendida primavera, esattamente nel momento in cui mi trovavo così. Con un verso di noia rivolsi la mia attenzione alla scrivania: ricapitolai tutto il necessario, sistemai gli stumenti il più vicino possibile a me in maiera tale da poterli utilizzare con il minore spreco di tempo possibile, per poi avvicinarmi alla porta e chiuderla a chiave.
Dopo essermi spruzzata un denso strato di anestetizzante su entrambi i polsi, attesi un minuto esatto dei tre previsti prima che iniziasse a fare effetto.
Poi presi il coltello dalla lama seghettata e con un gesto preciso incisi il polso in più profondità possibile. Osservai come il sangue, scarlatto, scendesse rapidamente sul pavimento e su come il dolore mi avesse fatto mordere la lingua.
Sempre ad occhi socchiusi ed espressione immutabile, riuscii a passarmi il coltello nell’altra mano.
Evidentemente non avevo inciso troppo in profondità il muscolo, limitandomi a beccare la vena giusta.
Mi complimentai silenziosamente con me stessa per come avessi assimilato bene le lezioni di anatomia.
Altro taglio, fatto con violenza, forza e precisione.
Giusto in tempo, perchè sentivo le mani sempre più pesanti e meno sensibili.
Sospirai. Poi, con un gesto deciso del braccio, ripulii la scrivania di tutto. Ridacchiai al rumore di tutti i ninnoli che si infrangevano sul pavimento. Il dolore lancinante del polso si attutiva ogni secondi di più, e questo mi portava un enorme sollievo.
Poi mi sedetti pesantemente sulla sedia, appoggiando la testa sulle braccia Ed osservando distratta fuori dalla finestra.
Con piacere, sentii i miei occhi abbassarsi per qualcosa di inquietantemente simile al sonno. Sbadigliai, mentre con un tono assolutamente melodrammatico pensavo a quanto fossi cambiata.
{Sie hat genug von dem ewigen Spiel
Sie hat genug von ihren Hassgefühlen!
Sie bricht aus, rennt raus,
Stolpert im Schnee, oh nein!
Sie schreit zu Gott: „Kannst du mir verzeihen?“} -.-.-.-.-.
Mi riaggrappai a Christa in un abbraccio che sapeva di disperazione, rincominciando a singhiozzare.
La strinsi forte, fortissima, come se lei Ed i suoi diciassette centimetri in più di statura potessero essere la mia unica ancora di salvezza. La sentivo ricambiare l’abbraccio con quasi altrettanta forza. E mi resi conto che Christa era l0unica persona che potesse dire veramente di conoscermi, l’unica che vedesse la reale differenza tra Dodò e Dorcas, l’unica che capisse realmente la mia debolezza, forse perchè c’era sempre stata, nel bene e nel male, anche quando l’avevo evitata e l’unica cosa che le avevo detto dopo anni di lontananza fosse stata un freddo “ciao”.
Chiusi gli occhi, affogando in quella felpa bordeaux che non era evidentemente sua, eppure che era impregnata del suo profumo così femminile e dolce.
Le mia lacrime le stavano inzuppando la felpa, rendendola umida e scomoda. Per me.
Ma euelle non erano lacrime mie.
Erano lacrime della Dodò paurosa, repressa, quella che si fa le pippe mentali, che non segue l'istinto e che ha paura di sbagliare e di dare voci ai suoi sentimenti.
Erano lacrime che sapevano di nostalgia e autocompatimento, lacrime lievi e sempre presenti.
Ma c’erano anche lacrime che costava orgoglio piangere, che profumavano di rinnovata sicurezza e una determinazione assurda. Era Dorcas, la pazza esotica e manegreghista, quella parte di me che sà smonta la batteria ad occhi chiusi e che vorrebbe tornare a dare tempo al mondo tramite il suono scandito della sua batteria.
C’erano lacrime di entrambe nella felpa bordeaux, che sapeva un pò di Christa e un pò di Georg, di amore e amicizia, Tokio Hotel e ricordi di un sogno infranto.
C’erano le due parti separate da un braccio sinistro tatuato dal polso fino al seno, in ricordo di un passato fragile e di un futuro incerto, c’erano Dodò e Dorcas, unite da uno stesso corpo e dagli stessi sogni, c’era tutto.
In quel momento, stretta a Christa, piangendo lacrime che sapevano di ricordi sgradevoli, con Gustav tre piani più sotto e la mia vita sbattuta in faccia con un precisione chirurgica e crudele, mi resi conto che non sarebbe potuta continuare così per sempre.
Avrei dovuto rendermene conto prima, che mi serviva staccare.{Sie hat genug von dem ewigen Spiel
Sie hat genug von ihren Hassgefühlen!
Sie bricht aus, rennt raus.} :_:_:_:_:
Canzone: Niemand Hört Dich – Pan!K.
Potrete trovare la traduzione Qui!
(C)nevadatanforum. No, dico, ce l’abbiamo fatta! *___________________*
Innanzitutto, grazie per avermi sostenuto con questi fntastici commenti, a tutte quelle che l’hanno fatto.
È stato bellissimo vedersi così apprezzata, anche se, ovvio, da insicura cronica quale sono, io mi chieda se state sul srio parlando di me o non mi abbiate confuso con qualacun altro.
Mi rendo conto che questo è un capitolo un poco strano, a momenti piatto come l’encefalogramma di un morto, altre volte un poco melò.
Oh, mamma mia, sento di non averci messo tutto quello che potevo. Nonostante pensi che si recuperi un pochettino con il finale, credo che avrei potuto fare di meglio.
Mah, se son spine, pungeranno.
Ma, decisamente, sarebbe fantastico cercare di capire quanto vi ho realmente trasmesso di tutto ciò, attraverso i vostri commenti. Non chiedo papiri, ovvio, ma anche il solo fatto che mi facciate una seria critica sul come mi sia saltato in testa di scrivere una cavolata del genere sarebbe un gran bel passo avanti. <3<3<3
La distinzione tra Dorcas e Dodò
è tutta lalalesca. Rebdetele grazie, perchè senza quella chiaccherata in msn in piena notte, oggi non ci sarebbe questo chap.
Scusate se oggi ho così poco tempo per dedicarvi tutti i grazie di dovere, ma mi sono già beccata un lunga punizione per questo chap. Inffatti godetevelo, perchè prim di una settimana non potrò toccare word. T.T
{mi sento già svenire.}
Comunque i Danke! Sono doverosamente vostri, ovvio. *-*
D a n k e!
Gracias.
Grazie.
Merci.
Thanks.
A
Marty*, perchè mi ha scritto una recensione che credo ogni autore vorrebbe avere. Perchè è così buona da infarcirmi di complimenti come un tacchino per natale, perchè mi ha detto che rispecchia la realtà {magari potessi litigare tutti i gg con Gustav... significherebbe essere vicino a Raperonzolo! *_*} e perchè la sua ammirazzione vale oro, per la mia autostima.
A
Lales, perchè quella santa donna mi sopporta, mi ha fatto luccicare gli occhietti nel vero senso della parola e mi ha “suggerito” di postare entro il 2013. Alchè io, per farle un dispetto, ho postato tutto adesso. XD naturalmente rosicherà, come farete tutte: perchè qui, tra Dorcas e Gustav i fuochi d’artificio non esiteranno a scoppiare. Il condizionale si chiama così non per niente, eh. *_* santa donna, te l’ha mai detto nessuno che sei l’incoraggiatrice perfetta? <3
A
Chocol@t perchè mi ha scritto un paprio che ho amato, che ha rispecchiato esattamente quello che cercavo di esprimere, perchè mi ha preferito a matematica {l’eterno rivale, Dio, che orgoglio! <3} perchè mi ha detto {ma dove?} che ho una cura dei particolari assurda, perchè le ho fatto sciogliere il gelato tanto si è immedesimata, perchè scrive delle recensioni che {col cacchio che sono disordinate, Ilá!} che mi hanno fatto piangere dall’emozione {cavolo, un’attacco triplo di voi tre è stroncante, sul serio! *-*} e perchè si è lasciata convincere a leggere. E lasciarmi pure un commento che pochi così ne riceverò nella mia vita.
A
cho89 Perchè le ho fatto venire un’attacco di ansia per non aver aggiornato fino ad adesso.
A
.Jada. Perchè è rimasta stupida di quanto sia bella la mia ff. {in realtà mente, non può essere vero. XDXDXD}